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I Merovingi e il Cavaliere del Cigno

Copyright Sabina Marineo

La storia di Rennes-leChâteau e del suo tesoro propostaci da “Il Santo Graal” di Henry Lincoln, Michael Baigent e Richard Leigh risponde al mito creato da Pierre Plantard negli anni Sessanta. L’elemento della dinastia cripto-merovingia vi riveste una grande importanza, perché costituisce il nesso tra la stirpe davidica della famiglia di Gesù e i suoi discendenti di sangue reale, quelli che rappresentano nella saga plantardiana i cosiddetti “Re Perduti”. Già il giornalista francese Gérard de Sède aveva trattato il tema dei sovrani lungochiomati nel saggio “La race fabuleuse”. (1) Dunque i tre autori anglosassoni si riallacciano allo stesso motivo conduttore, percorrono la medesima linea a ritroso nel tempo e cercano le radici merovinge addirittura tra le tribù israelite del Vecchio Testamento, ipotizzando un loro insediamento nell’Arcadia del Peloponneso e poi nell’antica Troia. Vediamo in breve la rappresentazione del mito secondo de Sède e gli autori anglosassoni.(2)

L’orso, che fu nelle antiche leggende greche il simbolo dell’Arcadia e allo stesso tempo delle costellazioni dell’Orsa Maggiore e Minore, era un animale particolarmente venerato dai Sugambri, popolazione franca da cui si cristallizzò la tribù dei Merovingi. I Sugambri, ci dicono gli autori, adoravano nell’immagine dell’orso Diana Arduinna, dea delle Ardenne, catena montuosa presente nella zona in cui essi s’insediarono. Già nel V secolo d.C. e sull’onda delle grandi migrazioni germaniche, i Sugambri erano penetrati nella Gallia, occupando diversi territori del Belgio, della Germania e della Francia settentrionale. Da essi ebbe origine la dinastia merovingia d’Austrasia.

L’ultimo principe d’Austrasia Dagoberto II, ancora bambino e subito dopo la morte del padre, fu spodestato dal maior domus Grimoaldo - pippinide e quindi appartenente alla dinastia rivale – che tuttavia dimostrò un certo buon cuore limitandosi a mettere l’infante in un convento invece di ucciderlo. Grazie al gesto pietoso di Grimoaldo e all’organizzazione del vescovo Desiderius di Poitier, il bambino fu portato in Irlanda. Qui Dagoberto visse per anni sotto la protezione di un secondo vescovo, Wilfredo di York. E tuttavia il giovane merovingio non intraprese la carriera conventuale, ma, all’età di quindici anni, sposò la principessa anglosassone Matilde. Tale matrimonio faceva parte di un piano ben preciso.

Infatti Dagoberto sarebbe tornato in Francia dopo la morte di Grimoaldo e del figlio di costui, con l’intenzione di riconquistare il trono perduto. Anche il suo ritorno fu organizzato dal vescovo di York. Quest’ultimo non agiva disinteressatamente. Il religioso appoggiava l’intronizzazione di Dagoberto, poiché sperava, aiutandolo, di farne un braccio armato della Chiesa Cattolica. Morta la principessa Matilde nell’anno 670, il religioso si adoprò per combinare un matrimonio tra Dagoberto e la nobile Gisele di Razès, figlia del goto Bera II, conte di Razès. Quest’unione tra un principe merovingio ed una nobile visigota, creava le basi per una fusione delle due dinastie e allo stesso tempo le premesse necessarie alla costituzione di un regno merovingio che, dalla Francia settentrionale, si sarebbe esteso fino ai Pirenei. Tale regno avrebbe inoltre legato a Roma anche quei Visigoti fedeli all’arianismo che ancora si rifiutavano di convertirsi al cattolicesimo.

Gisele e Dagoberto si sposarono nel 671 proprio nella città di Rhedae (l’odierna Rennes-le- Château), nella residenza del conte Bera. Dal primo matrimonio del lungochiomato con Matilde in Irlanda erano nate tre figlie, ma nessun erede maschio. Gisele diede invece alla luce due femmine ed il maschio tanto atteso, Sigiberto IV. Nel frattempo Dagoberto era riuscito a riconquistare il trono d’Austrasia – nell’anno 674 - con l’appoggio della madre e dei due vescovi Wilfredo di York e Amato di Sion (l’odierna città di Sitten, in Svizzera).

Dopodiché re Dagoberto II aveva stabilito le sue residenze principali a Strassburgo e a Stenay. Il giovane monarca non perse tempo. Subito intraprese diverse azioni politiche per ristabilire l’ordine nel regno sedando le insurrezioni dei nobili ribelli, e riconquistare il territorio d’Aquitania che rimaneva strettamente legato alle tradizioni romane. Ma non tardarono a profilarsi grandi difficoltà. Infatti il sovrano non intendeva per nulla svolgere gli interessi della Chiesa, non si vedeva quale paladino di Roma, né del cattolicesimo. Anzi, in seguito al suo matrimonio con la gota Gisele, pareva mostrare un certo interessamento per la dottrina ariana che, del resto, era pur sempre diffusa nella famiglia reale. Inoltre Dagoberto limitava con le sue misure politiche e con l’opera di centralizzazione del potere il raggio d’azione di quei nobili che continuavano ad insorgere in alcuni territori di Austrasia e temevano di perdere la loro indipendenza.

Per tutti questi motivi intorno al sovrano vi era ormai più di un nemico, il più influente dei quali era forse il maior domus Pipino II di Heristal. E fu così che il 23 dicembre 679, durante una partita di caccia avvenuta nella foresta della Woevre presso la città di Stenay, il sovrano fu attaccato dai sicari di Pipino e ucciso. Ma il figlio Sigiberto IV sopravvisse. Il bambino fu messo in salvo dalla sorella Irmina e portato nel meridione presso i parenti di Gisele, nel Razès. L’anno 681 segna nella mitografia del Priorato l’arrivo di Sigiberto IV a Rhedae. Poco dopo gli fu attribuito dallo zio il titolo di duca di Razès e conte di Rhedae. Prese inoltre il nome di “Plant-Ard”, “virgulto ardente”, che si riferiva alla sua discendenza dalla dinastia merovingia.

Tutta questa storia che ci viene presentata dagli scritti di de Sède, del Priorato di Sion nonché dei tre autori anglosassoni, ha diverse funzioni. Deve spiegare l’importanza dei documenti che troverà a Rennes-le-Château nella chiesa di Sainte-Marie-Madeleine e alla fine del XIX secolo il parroco Bérengere Saunière, documenti che provano la discendenza dei conti di Rhedae dai Merovingi e quindi dalla famiglia di Gesù. E deve motivare la misteriosa frase ricavata dalla seconda pergamena: “A DAGOBERT II ROI ET A SION EST CE TRESOR ET IL EST LA MORT”, che si può leggere: “Questo tesoro è di re Dagoberto II e di Sion, ed è (rappresenta) la morte” oppure: “Questo tesoro è di re Dagoberto II e di Sion ed egli è (giace) là, morto”. I tre autori scelgono la seconda interpretazione, dunque ci suggeriscono che le spoglie del sovrano merovingio si trovino sepolte nella chiesa di Sainte-Marie- Madeleine insieme con il tesoro. La “Lastra dei Cavalieri”, nota come: “Dalle des Chevaliers”, che Saunière scoprì - con la faccia scolpita rivolta verso il basso- nella navata e dinanzi all’altar maggiore della chiesa, avrebbe avuto la funzione di documentare l’arrivo del piccolo Sigiberto IV a Rennes. A tale proposito Henri Buthion – divenuto proprietario della tenuta Saunière/Dénarnaud durante gli anni Sessanta – afferma in un’intervista concessa all’autore Pierre Jarnac:

“Sembra ormai evidente che Sigiberto IV abbia sopravvissuto l’attentato. La prova è costituita dalla Dalle des Chevaliers. Da una parte appare un solo cavaliere, si tratta di un monarca. Dall’altra vi è raffigurato un cavaliere che porta un bambino. Secondo i documenti in possesso della “Ligue”, questi scritti racconterrebbero la fuga di Sigiberto IV, grazie ad un cavaliere che si sarebbe chiamato Plant-Ard.”(3)

 

Di che “Ligue” parla qui Buthion? Si riferisce alla “Ligue Internationale des Librairies anciens” che, secondo le informazioni del Priorato, avrebbe scritto nel 1966 una lettera al nuovo proprietario del castello di Rennes-le-Château, monsieur Marius Fatin, per informarlo dell’importanza storica del sito. La Lega colloca la data di costruzione della chiesa Sainte- Marie-Madeleine nel 771 d.C. e l’attribuisce con nonchalance proprio ai nipoti di Sigiberto IV, che l’avrebbero edificata per seppellirvi le spoglie del nonno.

A scanso di equivoci spiego subito che questa lettera si è rivelata un falso, uscito dalla penna – o meglio dalla macchina da scrivere – del Priorato. Ma Buthion sembra convinto della sua attendibilità e anzi osserva: “Come mettere in dubbio questo scenario (n.d.A.: l’arrivo di Sigiberto IV a Rennes) dopo le rivelazioni apportate dalle pergamene della Lega? In effetti sembra difficile supporre che un’organizzazione di tale notorietà abbia raccontato una storia completamente inventata.

Così tutto trova conferma. La Dalle è stata autenticata dai Services Historiques come pezzo del VIII secolo dell’epoca carolingia. Non si capisce perché altrimenti sarebbe stata fabbricata una lastra raffigurante due fatti essenziali e cioè: una linea di sangue reale da una parte e dall’altra una discendenza. Come si sarebbe potuto inventare tutto ciò in anticipo soltanto per confermare dodici secoli dopo una discendenza legittima?”(4)

 

Ma questo è il senno di poi. Se si vuole a tutti i costi trovare un nesso, lo si trova. Invece c’è da notare che stranamente nell’intervista Buthion non cita una statua di Santa Irmina che, secondo un articolo pubblicato ne “La Depeche du Midi” del 1975, fu trafugata dalla chiesa di Sainte-Marie-Madeleine. E la denuncia del furto fu sporta nel ‘75 proprio da monsieur Buthion in persona. Mai più si farà parola di questa piccola scultura scomparsa che potrebbe essere stata collocata nella chiesa dallo stesso Buthion per suffragare la sua tesi cripto-merovingia. Nell’intervista rilasciata a Pierre Jarnac, che appare in un saggio del febbraio 2000, la statua non viene menzionata. Perché?

Ma lasciamo da parte la scultura (di cui ci siamo già occupati in un articolo precedente) e torniamo invece al personaggio di Irmina che, come abbiamo visto, era – secondo la leggenda– figlia di Dagoberto II e sorella di Sigiberto IV. Proprio lei, ci dice il Priorato, aveva salvato il fratello bambino dalla morte, organizzandone la fuga nel Razès. L’esistenza di un’ Irmina appartenente alla stirpe merovingia è certa. Questa principessa, dopo essere rimasta vedova, si allontanò dal mondo e divenne abbadessa del convento di Oeren, a Treviri. Ma esistette veramente un fratello di Irmina? Un erede maschio dell’infelice re Dagoberto II? Sigiberto IV appartiene anche alla storia o soltanto alla leggenda? Il suo nome appare su qualche documento antico oppure è frutto della penna dei mistagoghi di Rennes?

Alcuni elementi storico-leggendari sono ormai così profondamente intrecciati tra loro da impedire un discernimento chiaro tra simbolo e realtà:

- l’occultamento dell’infante reale ha luogo proprio in un monastero irlandese, e cioè presso quei monaci culdei che praticavano un cristianesimo ben differente da quello della Chiesa Cattolica e intriso di implicazioni pagane. Questo periodo di Dagoberto in Irlanda si potrebbe interpretare come l’iniziazione simbolica del monarca.

- il salvataggio del bambino e la sua educazione sono organizzati da due prelati, il vescovo di Poitier e quello di York. Dunque due autorità della Chiesa - di cui uno sicuramente influenzato dal pensiero religioso culdeo - salvano il Re Perduto e ne preparano con cura l’ascesa al trono.

- al suo ritorno in Austrasia, Dagoberto si stabilisce proprio a Stenay, città cara al suo successore Goffredo di Buglione (che chiamerò in questo articolo sempre Goffredo di Bouillon, per richiamare all’attenzione sulla grafia identica di cognome e feudo della famiglia, oggi località): vedremo più tardi la connessione leggendaria tra i due personaggi storici immortalata nell’immagine del “Cavaliere del cigno”.

- la data in cui Dagoberto viene ucciso è il 23 dicembre, che corrisponde alle antiche feste pagane della tradizione celto-germanica. In questo senso Dagoberto assume il ruolo del “re sacrificale”, il monarca che, in tempi più antichi, veniva letteralmente sacrificato sull’altare per assicurare fertilità ed abbondanza al suo popolo.

-il luogo in cui Dagoberto viene ucciso è la foresta della Woevre, dunque un luogo particolarmente sacro, in cui si pensava nei tempi antichi che le energie della terra fossero straordinariamente attive.

- Dagoberto viene ucciso da un dardo che gli trafigge la fronte proprio sopra l’occhio sinistro, quindi la sua ferita mortale corrisponde alla perforazione sacro-rituale cui venivano sottoposti i crani dei sovrani merovingi.


 

Dunque, per fare un po’ di ordine e capire il messaggio del Priorato, esaminiamo le cronache ed i documenti storici.

Il cronista Fredegarius scrisse nel VII secolo d.C. nella sua opera “Liber Historiae Francorum”:


 

“E dunque, allorché con il passare del tempo anche re Sigiberto morì (N.d.A.: Sigiberto III), Grimoaldo fece tagliare i capelli al piccolo figlio di questi di name Dagoberto (N.d.A.: Dagoberto II), lo mandò accompagnato dal vescovo Dido (N.d.A.: Desiderius) dalla città di Poitiers in terra straniera, in Irlanda, e innalzò il proprio figlio a monarca. Ciò incollerì alquanto i Franchi, i quali tesero a Grimoaldo un agguato, lo fecero prigioniero e lo condussero dal re franco Clodoveo affiché lo si giustiziasse. Nella città di Parigi egli fu gettato in carcere, dolorosamente incatenato e alla fine morì con grandi tormenti, giustamente punito per quello che aveva fatto al suo signore.”(5)


 

Questo breve resoconto di Fredegarius illustra la concorrenza politica tra i due regni merovingi: quello più occidentale di Neustria che dominava il territorio dell’odierna Francia settentrionale e centrale all’incirca dalla Bretagna alla città di Amiens e quello di Austrasia che invece si estendeva da Tournai al Reno, da Reims a Laon e quindi occupava l’odierna parte orientale della Francia, e poi anche il Belgio, le Fiandre e la Germania settentrionale e centrale. Ricordiamo però che è difficile tracciare dei confini determinati dei regni di allora, dato che veri e propri confini non esistevano. Inoltre non esisteva nemmeno una divisione linguistica tra Neustria e Autrasia, e le famiglie nobili dei due regni erano legate da vincoli di parentela. Di conseguenza si può dire che i motivi che determinavano un comportamento elitario da parte della dinastia austrasica nei confronti della rivale di Neustria, erano – come vedremo in seguito più dettagliatamente – di natura mitico-ancestrale.(6)

Consultando i libri di storia che si occupano del periodo merovingio e riportano gli alberi genealogici delle famiglie dei re dai lunghi capelli, non vi è traccia di Sigiberto IV. La dinastia d’Austrasia dei reges criniti si estinse con Dagoberto II. Dopodiché un altro ramo franco salì al potere, inaugurando quella sequela di re fantocci, i cosiddetti “rois faineants” che fungevano più da figure rappresentative anziché operare da sovrani veri e propri. Per questo motivo Dagoberto II riveste un ruolo tanto importante per i monarchici sostenitori della linea merovingia: egli fu l’ultimo sovrano di fatto. Se veramente questo re avesse avuto un figlio maschio, se questo figlio gli fosse sopravvissuto e avesse unito il suo sangue a quello dei conti del Razès, in questo caso la linea d’Austrasia non si sarebbe estinta, ma avrebbe continuato a persistere nei secoli, se pure nell’ombra. E si capisce bene che, nonostante i “re perduti” non siano più riusciti de facto a raggiungere il trono di Francia, la sola realtà della loro esistenza sarebbe bastata ad infondere ai seguaci una speranza per il futuro.

I re austrasici appartenevano per tradizione alla stirpe più antica e nobile dei Franchi e discendevano secondo la cronaca di Fredegarius dal mitico Merowech. Tale patriarca fu generato da una principessa franca e da un mostro marino per metà toro e per metà uomo. Non sappiamo se esista un qualche avvenimento occorso che abbia dato origine a quella credenza secondo la quale i re lungochiomati sarebbero stati in possesso di poteri curativi. E tuttavia, fondato o infondato che fosse, il sussistere di tale credenza è confermato da documenti storici.(7) Il cronista medievale Einhard, che scrisse una biografia di Carlo Magno ed era quindi devoto alla dinastia carolingia, ridicolizza l’uso dei reges criniti di spostarsi da una residenza all’altra del loro regno viaggiando su di un carro trainato da buoi, tacciandolo di primitiva usanza contadina. In realtà tale costumanza aveva nella tradizione merovingia radici profonde, che si perdevano nella notte dei tempi. Derivava da tutta una mitografia di matrice germanica e riproduceva il viaggio annuale della divinità della terra Nerthus nel mondo degli esseri umani. Anche i lunghi capelli dei re spartiti nel mezzo e arricciati sulle spalle trovano l’equivalente nel dio germanico Wotan.

E proprio qui, tra queste popolazioni germaniche che originariamente abitavano il territorio situato tra i fiumi Weser e Reno, è da collocare storicamente la culla dei Merovingi. Nel VI secolo d.C. il vescovo galloromano e cronista Gregorio di Tours (8) scrisse che i Franchi venivano governati da re appartenenti alla loro stirpe più ragguardevole, quella dei Merovingi. Dobbiamo quindi immaginare una tribù franca di stampo guerresco che, per tradizione, vantava delle origini particolarmente nobili e antiche.

Lo storico francese medievista Marc Bloch aggiunge al particolare sacrale della lunga chioma merovingia quello leggendario della macchia a forma di croce che questi re avrebbero avuto sin dalla nascita: “Essi portavano sulla pelle, di sovente all’altezza del cuore, una macchia rossa a forma di croce.”(9)

Dunque, anche prescindendo dall’invenzione altresì romanzesca di una discendenza della dinastia merovingia dalla famiglia di Gesù Cristo che fu propagata dal best-seller dei tre autori anglosassoni Lincoln, Baigent e Leigh, e restando con i piedi per terra sulla base delle conoscenze storiche, vediamo che la stirpe merovingia già nel passato era avvolta da un alone mistico-sacrale di origine ignota.

A tale fattore si può ricondurre l’ambizione di alcune case principesche europee di discendere dai re lungochiomati d’Austrasia. Una di esse, forse la più potente, era la casata degli Asburgo. Già nel XVI secolo, l’imperatore austriaco Massimiliano I d’Asburgo coltivava una venerazione particolare per i Merovingi e si riconosceva quale discendente diretto. Nel 1505 Massimiliano aveva commissionato la”Fürstliche Chronik” , una cronaca sulla dinastia asburgica divisa in cinque volumi. Lo studioso tedesco Jakob Mennel si sobbarcò l’incarico. Oggi i manoscritti dell’opera - portati a termine nell’anno 1518 - si trovano a Vienna nella Österreichische Nationalbibliothek.(10) Il quinto volume contiene un “Heiligen Legendar” e cioè una trascrizione dei santi legati alla casa degli Asburgo. In questo modo l’imperatore tedesco intendeva dimostrare che la dinastia asburgica aveva dato i natali a numerosi santi attraverso i secoli e che alcuni di questi santi asburgici erano di origine merovingia.

Per portare avanti la sua cronaca, Mennel intraprese dunque un paziente lavoro soprattutto nelle biblioteche dei conventi. Una delle fonti di ricerca furono gli scritti dello storico tedesco Ladislaus Sunthaym . Questo letterato, che nel XV secolo aveva scritto al servizio della casa imperiale d’Austria una storia di Leopoldo III, si occupò tra l’altro della città di Strassburgo, centro dell’Alsazia. Sunthaym riteneva che Strassburgo fosse passata direttamente dal dominio romano a quello merovingio. Dagoberto I e gli altri monarchi franchi avevano collocato la loro residenza in questa città che rivestì quindi nella storia dei reges criniti un

ruolo di notevole importanza per ben duecento anni. Nel convento Alt-St. Peter di Strassburgo si poteva vedere ai tempi di Sunthaym – e vi veniva custodita sin dal 1398 - una reliquia particolare: il capo di San Amandus. Dunque lo storico intraprese una ricerca intorno al santo per poterne ricostruire la vita. E s’imbatté in Sigiberto. La tedesca Tanja Reinhardt, che ha scritto alcuni anni fa una dissertazione per l’università di Friburgo incentrata sul calendario dei santi asburgici di Mennel, riporta la leggenda di Sunthaym. Vediamola:

“Il prete santo Amandus, così dice Sunthaym, si recò un giorno a Roma per chiedere indulgenza dei suoi peccati. A tale scopo trascorse la notte nella basilica di San Pietro. Qui gli apparve San Pietro che gli ordinò di punire re Dagoberto per la sua vita peccaminosa. San Amandus raccontò a Dagoberto di tale visione. Allorché Dagoberto e sua moglie Matilde diedero alla luce un figlio, Amandus che era molto vicino al monarca lo battezzò con il nome di Sigiberto. Il neonato mostrò di possedere facoltà al di fuori dalla norma: egli rispondeva alle domande di san Amandus terminando le risposte con un “amen”. Ma durante l’adolescenza di Sigiberto si avverò la profezia di Pietro: mentre egli cacciava con il padre presso Ebersmünster an der Ill, un cinghiale sbalzò il principe da cavallo. Il cavallo trascinò Sigiberto fino ad ucciderlo. Ma dopo che santo Arbogasto, vescovo di Strassburgo, riportò Sigiberto miracolosamente in vita, Dagoberto donò ad Arbogasto e ai suoi discendenti Rufach e Eissenburg.” (11)

Un passo dall’originale di Sunthaym:

“Sedente autem eo in extasi mentis in gradibus ante fores ecclesiae , subito ei (Amandus) sanctus apparuit Petrus, blande leniterque eum adloquitur et, ut in Galliis ad praedicationem exercendam reverti deberet, admonuit.”(12)

La leggenda di Arbogasto viene riportata anche nella storia religiosa della città di Strassburgo scritta da Luzian Pfleger, che recita:

“Il primo vescovo di origine franca è san Arbogasto che noi collochiamo intorno alla metà del VII secolo. (…) La sua leggenda scritta soltanto nel X secolo lo avvicina a re Dagoberto.(…) Si trovarono nell’anno 1908, effettuando degli scavi nella piazza del castello nei pressi del duomo, due frammenti di mattoni con lo stampo del vescovo Arbogasto nell’imprecisa scrittura latina d’epoca merovingia: ARBOGASTI EPS FICET (sic). Inoltre si trovò del materiale di costruzione che appartiene al periodo merovingio. Da tutto ciò si può dedurre che con grande probabilità il vescovo Arbogasto fece erigere la prima cattedrale, consacrata alla Vergine Maria”(13)


 

Dunque vediamo che esiste una tradizione antica scritta che parla dell’esistenza di un figlio di Dagoberto II di nome Sigiberto e che precede sicuramente il XV secolo, seppure in tale leggenda Sigiberto non è figlio di Gisele del Razès, ma dell’anglosassone Matilde. Sigiberto IV, racconta la tradizione, sopravvisse un incidente di caccia. A tale racconto potrebbe essersi rifatto Plantard nella ricostruzione del proprio albero genealogico.

Del resto questa venerazione particolare per i sovrani merovingi sussisteva già secoli prima dell’epoca di Sunthaym. Ne troviamo traccia indirettamente nella leggenda alquanto misteriosa del “Cavaliere del cigno”. Teatri di questo mito di origini molto antiche sono le Fiandre, le città di Nimwegen, Anversa e Bouillon.

Anche il poeta tedesco Wolfram von Eschenbach inserì l’enigmatico personaggio nella sua opera “Parzival” (XIII secolo). Lohengrin, il figlio di Parzival, è il Cavaliere del cigno.

Seguendo le direttive della famiglia del Graal, Lohengrin abbandona il castello di Munsalvaesche e parte per Anversa, città in cui prenderà in moglie la nobile Elsa di Brabante. Ma Lohengrin pone subito ad Elsa le proprie condizioni: la sposerà soltanto se lei non gli chiederà mai il suo nome o la sua provenienza. La nobile accetta e i due coniugi vivono per alcuni anni sereni. Un giorno però Elsa decide di conoscere l’identità del padre dei suoi figli e pretende che Lohengrin le sveli il suo segreto. Dunque il patto è infranto, Lohengrin deve abbandonarla per sempre e se ne andrà da Anversa nella barca trainata dal cigno, così com’era arrivato. Ad Elsa lascia tre doni: un anello, un corno, una spada.

Questa la breve storia che Wolfram inserisce proprio alla fine del suo epos, probabilmente per confermare la discendenza della casa di Brabante dal Cavaliere del cigno e di conseguenza anche dalla famiglia graalica. Un’interessante annotazione a margine: il nome Lohengrin scelto da Wolfram deriva da “lorrain Garin”, che significa “Garin di Lorena”. Dunque un riferimento che lega l’eroe graalico a quel territorio che fu la culla della famiglia di Bouillon. Ma esisteva già prima del “Parzival” una leggenda a sé stante, che venne tramandata oralmente e soltanto molto più tardi – all’inizio del XVI- secolo fermata su carta: “Le chevalier au cygne et Godefroy de Bouillon” componimento scritto per la duchessa Maria di Kleve.La storia racconta le vicissitudini del misterioso cavaliere Helias che viaggia di città in città su di una navicella trainata da un cigno. Helias si sposa con la duchessa di Bouillon e da questo matrimonio nasce una figlia, Ida. L’unione dei due è felice, ma Helias s’impegna a rimanere presso la duchessa ad una sola condizione: ella non deve chiedergli mai notizie sulla sua provenienza e la sua origine. Sei anni dopo, la nobile rompe il patto e pretende di conoscere la verità sull’identità del marito. Dunque Helias è costretto a lasciarla per sempre. Si ritira in un convento, in cui rimarrà sino alla morte. Nel frattempo gli anni passano ed Ida, la figlia di Helias e della duchessa di Bouillon, sposa il conte Eustachio di Bonn. Ida sogna che darà alla luce tre figli, due dei quali porteranno un giorno la corona. E infatti, nell’arco di tre anni, la contessa partorisce tre figli maschi: Goffredo, Baldovino ed Eustachio. Goffredo e Baldovino diventeranno re di Gerusalemme (anche se Goffredo, in realtà, rifiuterà il titolo di re e prenderà invece quello di “Avvocato del Santo Sepolcro”).

Esistono diverse versioni della leggenda, più o meno lunghe, più o meno complicate. Denominatore comune sono i riferimenti specifici del mito a quattro famiglie: Bouillon, Boulogne, Brabante, Kleve. Ciò non sorprende, dato che queste famiglie erano strettamente imparentate tra loro. Ma la parte del leone nel mito del cigno spetta ai Bouillon.

La notizia scritta più antica che identifica i Cavalieri del cigno con i Bouillon risale al XII secolo ed è una lettera redatta dal francese Guy de Bazoche tra il 1175 e il 1180. Bazoche, cantore della cattedrale di Chalons-sur-Marne, afferma che Baldovino di Bouillon – fratello di Goffredo – è il nipote del “myles cygni”.

Alcuni anni dopo anche il vescovo Guillaume de Tyr, autore di una cronaca della prima crociata in Terrasanta, menziona la discendenza di Goffredo di Bouillon dal Cavaliere del cigno.

Alla fine del XII secolo appare il componimento poetico “La Chanson d’Antioche” del trovatore Graindor de Douai. La Chanson recita:

« Il suo antenato (di Bouillon) fu portato a riva da un cigno presso Nimwegen, sulla spiaggia dinanzi al torrione, completamente solo, in una barca senza remi, con scarpe buone e abiti bianchi. La sua testa splendeva più delle piume di un pavone. L’imperatore lo accolse e gli assicuró che sarebbe potuto ripartire qualora lo avesse desiderato senza che nessuno glielo impedisse, e gli diede una donna di quel paese in moglie. Era una sua parente, la cugina del duca di Begon. Egli (l’imperatore) donò al barone (il Cavaliere del cigno) buona, rigogliosa terra e il feudo di Bouillon. Dopodiché il Cavaliere del cigno fu posto alla testa di un’armata, portò lo stendardo e servì quale volontario sino al giorno in cui il cigno, con la buona stagione, ritornò. Egli (il cigno) fece salire il cavaliere in una piccola barca e lo condusse sul mare senza remo né guida. Il re non poté fermare il Cavaliere con nessun regalo. La gente di palazzo era molto triste e non udì mai più nulla di lui. Una fanciulla rimase abbandonata nel castello di Bouillon. Così nacque il duca Goffredo.”(14)

 

Alcuni secoli più tardi re Sancho IV di Spagna commissionò una cronaca delle crociate in Oltremare “La gran conquista de Ultramar”. L’opera fu pubblicata a Salamanca nel 1503. Ed inizia così:

“Questo volume della grande storia d’Oltremare che fu scritto sui nipoti e i pronipoti del Cavaliere del cigno Goffredo di Bouillon, il quale fu alla testa del grande esercito di Antiochia, fu commissionato ai Francesi in lingua castigliana dal nobilissimo don Sancho, signore di Molina e figlio di re Alfonso XI e della nobilissima regina Yolanda”(15)


 

Dunque vediamo che, sin dai tempi antichi, il titolo di Cavaliere del cigno era riservato a Goffredo di Bouillon. Ma che significato si nasconde oltre la leggenda? Che vuole simboleggiare il cigno? È sicuramente possibile che le radici del mito siano da ricercarsi nelle antiche saghe nordiche, come propone lo storico Claude Lecouteux (16). In questi miti si racconta di divinità che si traformano in cigni come le Valchirie. Oppure si parla di eroi sconosciuti, come il nordico Sceaf, che giungono in un paese straniero portati da una barca senza remi né guidatore. Ma una vera e propria leggenda del Cavaliere del cigno così come l’abbiamo riportata più sopra - e cioè quella del cavaliere straniero che giunge in un’imbarcazione trainata da un cigno e vuole mantenere la sua identità segreta anche a costo di abbandonare moglie e figli - in questi racconti manca. Allora dove dobbiamo cercare?

Un indizio c’è. In francese la parola “segno”, “signe”, si pronuncia come la parola “cigno”,“cygne”. Il Cavaliere del cigno sarebbe perciò allo stesso tempo anche il Cavaliere del segno. Questo spiegherebbe perché proprio quelle famiglie di antiche origini franche unite fra loro da stretti vincoli di parentela (Bouillon, Brabante, Boulogne, Kleve) si fregiavano di tale mitico passato ornando i blasoni con il nobile volatile: perché sapevano di discendere dalla stirpe merovingia, dalla stirpe dei re taumaturghi, dei reges criniti, i “re del segno”.

Insomma da quei re che, come sottolineava Bloch, secondo la leggenda nascevano con una macchia rossa a forma di croce sul petto.

Se ciò fosse vero, ma per il momento dobbiamo limitare questo scenario all’ambito della teoria, avremmo un’ulteriore prova dell’esclusività dell’immagine merovingia durante i secoli, e questo già in illo tempore. Sicuramente l’ampio spettro di tale mitografia era ben noto ai monarchici dell’Ottocento, strettamente devoti alla casata degli Asburgo, e di certo lo era al moderno Priorato di Sion e, dunque, in primis a Plantard. Riconoscendosi quale “virgulto ardente”, forse il Gran Maestro del Priorato si vedeva anche quale Cavaliere del segno? Sicuramente.

È affascinante e talvolta anche istruttivo disvolgere poco a poco i singoli elementi del mito plantardiano, che si presenta come un gigantesco mosaico, composto dalle tessere più disparate. Queste tessere non derivano mai da favole inventate di sana pianta, bensì da leggende antiche, che talvolta si appoggiano a documenti scritti. La leggenda di Sigiberto IV e la saga dei Re del segno ne costituiscono elementi essenziali.

1.Gérard de Sède, La race fabuleuse, Parigi 1973, pag. 34

2.H. Lincoln, M. Baigent, R. Leigh, Il Santo Graal, London 1982, pp 232-248

3.Pierre Jarnac, Trésors cachés de l’Aude, Cazilhac 2000, pp 73-74

4.Pierre Jarnac, ibidem

5.Fredegarius, Liber Historiae Francorum, Darmstadt 1982, p. 365

6.Eugen Ewig, Die Merowinger und das Frankenreich, Stuttgart 1993

7.Gregoire de Tours, Histoire des Francs, Parigi 1823

8.Patrick Geary, Die Merowinger, München 1996, p. 193

9.Marc Bloch, Les rois thaumaturges, p. 251

10. Jakob Mennel, Fürstliche Chronik – Codex Vindobonensis Palatinus 3076, 3077- Österreichische Nationalbibliothek, Vienna 1518

11. Dissertazione di Tanja Reinhardt per l’Università di Friburgo “Die habsburgischen Heiligen des Jakob Mennel”, pag. 77, 2002

12. Bruno Krusch, Vita Amandi Episcopi, da Ladislaus Sunthaym, Köln 1950, p.434

13. Luzian Pfleger, Kirchengeschichte der Stadt Strassburg , Kolmar 1941, p. 13

14. Graindor de Douai, Romans des Douze Pairs, XI-XII, chant VII, v. 753

15. La gran conquista de Ultramar, manoscritto 1187, Biblioteca Nazionale di Madrid

16. Claude Lecouteux, Mélusine et le Chevalier au Cygne, Parigi 1998

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